Portare avanti il programma per arrivare a fine Maggio con la “coscienza a posto” sembra essere l’obiettivo primario non solo di molti (ahimè) insegnanti, ma anche di molti accademici che occupano le stanze del potere.
Tanto è che, nonostante il periodo di emergenza che ha visto molte scuole lavorare più in Dad che in presenza, e molte altre altalenarsi tra periodi in presenza ed altri da remoto a causa di ovvi (purtroppo) motivi di isolamento e quarantene varie, a Maggio gli studenti italiani faranno i conti con le Prove Invalsi.
Mi chiedo allora:
Quanto è più importante, ancora di più in questo momento storico, investire il tempo per portare a termine un programma costi quel che costi, piuttosto che impegnarne, almeno una parte, per riconoscere, sentire ed esprimere le emozioni?
L’impressione (almeno la mia) è che la priorità sia ancorata esclusivamente al rendimento scolastico, mettendo da parte la necessaria integrazione della dimensione cognitiva con quella emozionale.
E ancora in questo delicato momento, l’interesse è stato rivolto più ad uno stravolgimento del sistema valutativo ( a mio modesto ed opinabile parere non erano questi i tempi per una simile ‘rivoluzione pedagogica’) che ad una campagna di alfabetizzazione emozionale volta a promuovere il benessere socio-emozionale di ogni individuo.
Tutto ruota intorno alle emozioni e in un contesto educativo, qual è quello scolastico, la preoccupazione di dover terminare il programma dovrebbe lasciare spazio alla preoccupazione di saper riconoscere ed imparare a gestire le proprie emozioni aiutando gli alunni a fare altrettanto.
La sicurezza che scaturisce dalla consapevolezza emotiva diventa la base per trovare le strategie giuste finalizzate all’acquisizione degli obiettivi (anche) didattici e diventa altresì, la metodologia per portare a termine il programma, senza che questo diventi un elenco di noiose nozioni da imparare, ripetere e dimenticare dopo l’interrogazione.
Maestra col naso Ross🔴
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